fbpx
Scroll Top

Don Bosco, prete dei giovani nel secolo delle libertà

Copertina articolo LinkedIn

Il titolo – non è mio, è di un testo di un eminente studioso di don Bosco, don Pietro Braido – appare almeno “stravagante” nella definizione dell’Ottocento come “secolo delle libertà”. Se – da una parte – il secolo in cui vive don Bosco è caratterizzato dall’emergere di un desiderio di “protagonismo sociale e civile” di cui sono evidenza i moti del 1848 – d’altra parte, questo avviene a spese della parte più povera e più fragile della popolazione. Quella giovanile prima di tutto, “porzione più delicata e preziosa” della società umana. Le narrazioni di don Bosco nelle “Memorie dell’Oratorio” e dei suoi biografi raccontano un quadro sconfortante della situazione di Torino durante la seconda rivoluzione industriale. Sinteticamente potremmo inquadrare così la situazione giovanile che don Bosco incontra nei suoi primi anni di ministero sacerdotale: quella della agonia dei piccoli lavoratori: «aspettiamo qualcuno che ci prenda a lavorare».

«Fin dalle prime domeniche (don Bosco) andò per la città, per farsi un’idea della condizione morale in cui si trovava la gioventù» – scrive Michele Rua, uno dei primi ragazzi di don Bosco -. Vide «un gran numero di giovani d’ogni età, che andavano vagando per le vie e per le piazze, specialmente nei dintorni della città, giuocando, rissando, bestemmiando e facendo anche di peggio».

Un vero «mercato delle braccia giovani» lo trova sulla piazza del mercato generale di Porta Palazzo. Alla domenica il mercato è chiuso, e la piazza è affollata di commercianti, ragazzi in cerca di lavoro, che intanto si arrangiano facendo i merciaioli, venditori di zolfanelli, lustrascarpe. Dalle statistiche di uno storico dell’epoca (Mellano) possiamo farci un’idea del loro numero: «(…) senza professione poveri (maschi) 885; (…) lavoratori alla giornata senza mestiere determinato 1222». Un ragazzo che visse accanto a loro ci descrive la loro condizione: «Scapigliati, senza scarpe, cenciosi, sporchi».

«Che cosa aspettate?», domanda don Bosco. «Qualcuno che ci prenda a lavorare, in cantiere, a bottega o in officina». Alcuni sono in cerca del primo lavoro, altri hanno già provato, ma sono stati scartati perché non sufficientemente forti per sopportare i ritmi di produzione.

Sono come lui, quando andò a bussare alla cascina Moglia con un fagotto sotto il braccio. Ma non avranno mucche da strigliare o prati verdi da percorrere. Il lavoro di città darà loro mezza lira al giorno (oggi meno di un euro!) e li trasformerà in muratori sfiniti nei cantieri o in piccoli sepolti vivi nelle manifatture o nelle officine.

La situazione non è migliore per chi trova lavoro. Se è vero che ci sono moltissime case in costruzione in questo tempo, don Bosco vede «fanciulli dagli 8 ai 12 anni servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti malsicuri, al sole, al vento, alla pioggia; salire le ripide scale a pioli carichi di calce, di mattoni e di altri pesi, senza altro aiuto educativo, fuorché villani rabbuffi o scapaccioni» (MB 2, 57-8).

La giornata lavorativa andava dalla primissima alba alla notte. Il vitto «al mezzogiorno consisteva di polenta cucinata da qualche muratore, il quale poteva assentarsi prima degli altri dal lavoro, per la sua occupazione speciale all’impasto o alla estinzione della calce. Il companatico era rappresentato abitualmente da un pezzo di formaggio o dalla ricotta. Alla sera mangiavano una minestra di pasta, riso o verdura; talvolta prendevano qualche po’ d’insalata. Il vino, riservato per i giorni festivi, lo si beveva di solito all’osteria».

Molti giovani muratori non avevano una famiglia o dei parenti che li aspettassero alla sera. Erano immigrati stagionali. «Convivevano a decine, e sui magri salari dividevano le spese dell’affitto e della polenta in comune. Il primo che arrivava dal lavoro accendeva il fuoco e appendeva il paiuolo con l’acqua. Il poco companatico arrivava da casa ogni quindici giorni, a mezzo del conducente che portava la sacca del pan nero e degli indumenti puliti e ritirava la sacca della biancheria sporca» (Buscaglia in ST 3,163).

Non va meglio ai piccoli operai. Quelli che trovavano lavoro nelle officine e nelle manifatture iniziavano (secondo la tragica espressione di Bertrand Russell) l’agonia dei ragazzi torturati.

In Piemonte «i padroni, per ridurre i salari, assumevano al posto dell’operaio adulto, la donna e il fanciullo. Si ebbe così una nuova figura nel campo del lavoro: il fanciullo operaio ad otto anni. Scandalosi erano i modi di reclutamento e inumani i metodi di lavoro. I fanciulli, i giovani operai, erano impiegati come degli adulti per 13 o 14 ore al giorno e per sette giorni alla settimana. La tenera età, i locali insalubri, antiigienici, il lavoro sfibrante e monotono, l’orario estenuante, crescevano torme di fanciulli seminutriti, anemici, quasi inebetiti di sonno e di stanchezza, amareggiati e ribelli».

E non erano poche decine. Nel 1844, in Piemonte, «si contavano 7184 fanciulli impiegati nelle fabbriche di seta, di lana e di cotone, al di sotto dei 10 anni».

Don Bosco, nel suo Oratorio, accoglierà piccoli muratori, spazzacamini, giovani artigiani e apprendisti. Vedrà pochi ragazzi operai. Essi vivevano e morivano nell’officina o nella filanda, sepolti «per 13 o 14 ore al giorno e per sette giorni alla settimana».

Erano gli infelici fratelli dei piccoli lavoratori sfruttati in quel tempo nel Lombardo- Veneto, in Francia, in Belgio, in Germania, in Inghilterra. Il grande capitale che avrebbe donato benessere e cultura all’Europa si stava costruendo con il sangue dei ragazzini.

Nell’Inghilterra (che aveva dato al resto del mondo i modelli della fabbrica, delle leggi, dell’organizzazione del lavoro) gli orrori erano tali che per molti anni si cercò di non parlarne.

Don Damiano Galbusera, Direttore dell’Opera Salesiana di Brescia

Post Correlati